James Joyce: i suoi primi anni sino a “Gente di Dublino” (due racconti: Eveline, Un increscioso incidente)

James Joyce

James Joyce “sunny Jim” da bambino

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Note biografiche di James Joyce fino alla composizione di “Gente di Dublino”

Per chiunque si accosti a studiare un artista, qualunque sia la forma d’arte da questo scelta per comunicare il suo pensiero e il suo mondo, la tappa fondamentale da cui muovere i primi passi è la vita; dietro ogni espressione artistica c’è sempre l’uomo che la crea e la sua personalità è il frutto di quell’albero le cui radici affondano nell’ambiente familiare e storico-sociale.
A questi legami profondi restò unito per tutta la vita James Joyce, uno scrittore nato e vissuto durante la sua giovinezza in Irlanda a cavallo delle due guerre mondiali, in quel periodo letterario che fu detto “Età dell’ansia”. Un momento di profonda trasformazione in cui tutte le certezze tradizionali entrarono in crisi, creando nell’animo degli uomini una profonda insicurezza che si respira anche nelle opere degli altri scrittori contemporanei a Joyce.
La società industriale, con il mito della macchina, aveva messo in crisi il ruolo dell’uomo, che cominciò così il lungo viaggio alla ricerca di se stesso, alla ricerca di nuovi valori in cui credere.
Tutto venne messo in discussione, la società e l’uomo.
Si cominciarono ad indagare i recessi della mente, alla ricerca della vera essenza dell’essere umano, studi ai quali Freud aveva già dato un notevole impulso con la sua Psicoanalisi.
E’ proprio alla meticolosa ricerca della verità nella realtà che Joyce dedica la sua vita.
James Augustine Joyce nacque ne 1882 a Rathgar, un sobborgo di Dublino.
Era il maggiore di dieci fratelli, e amava sin da piccolo divertire il suo pubblico casalingo con rappresentazioni teatrali e canore. Ebbe la sua prima educazione da una rigida governante che oltre ad insegnargli l’abc, gli trasmise un bigotto cattolicesimo e una forte carica patriottica. James era un ragazzo con un carattere tanto amabile che in famiglia ebbe il soprannome di “sunny Jim”, ed era anche “precocemente sveglio”.A testimoniare la sua innata capacità di scrittore fu una composizione sulla morte di Parnell, il capo dei nazionalisti irlandesi tradito dalla maggioranza dei suoi seguaci, sobillati dal clero. La spinta a scrivere questo poemetto, ad appena nove anni, gli fu data dalla devozione incrollabile per quest’uomo, devozione che egli ereditò dal padre.
Fu il padre stesso a far stampare la piccola opera dell’autore in erba in volantino che suscitò l’ammirazione di tutti. James a sei anni e mezzo aveva iniziato la sua carriera scolastica nella migliore scuola d’Irlanda , il collegio di Conglowes Wood, scuola cattolica retta dai gesuiti; poi, in seguito al crollo economico della famiglia fu mandato, insieme al fratello Stanislaus, tre anni più piccolo di lui, al Belvedere college, scuola sempre diretta dal rigido ordine dei gesuiti.
Durante la rapida discesa da una relativa agiatezza all’autentica miseria, i Joyce, condussero una vita zingaresca, cambiando indirizzo nove volte sempre in quartieri via via più miserabili.
A dodici anni James vinse un premio scolastico di venti sterline; erano i primi risultati di un ragazzino che “assai desideroso di studiare” preferiva stare in casa a leggere piuttosto che giocare come i suoi coetanei. La passione per lo studio non lo abbandonava mai, era un “divoratore di libri” e fu l’allievo più brillante del collegio; vinse tre borse di studio e per due volte ebbe il premio per il miglior componimento in inglese. In quegli anni compose delle poesie che raccolse sotto il titolo di Moods (stati d’animo) in cui si rifletteva il lato emotivo della sua personalità, e scrisse dei bozzetti in prosa dal titolo Silhouettes in cui cercava di mettere in luce la verità della vita; essi segnarono l’inizio della sua rivolta nei confronti sia della letteratura che produceva finzione, sia dell’ipocrisia della religione. La religiosità di Joyce era stata una fede assoluta, da devoto servitore aveva amato Dio e la Chiesa. Studiando, aveva incontrato la dottrina di S.Tommaso d’Aquino e ne era stato colpito perché essa rispondeva alla sua esigenza di creare un abito razionale per quella fede che in lui subiva il fascino tutto emotivo dei grandi drammi liturgici della Chiesa cattolica.
La razionalità che egli acquisì dalla filosofia dell’Aquinate gli servì come prima forma mentis e punto di partenza per ulteriori speculazioni. Successivamente, fu la lettura del filosofo Giordano Bruno, che aveva pagato con la vita l’essersi voluto porre in maniera libera e critica di fronte ad alcuni canoni del cattolicesimo, a determinare il rifiuto netto del giovane James per quella sostanza dogmatica che sentì per la prima volta trasformarsi in prigione. “ La sua ribellione fu una difesa di quella personalità contro un sistema le cui intrusioni, sotto il pretesto dell’ubbidienza, approdavano unicamente al completo annullamento del carattere”; nel profondo del suo animo l’amore per la religione non si spense mai del tutto.
Verso i diciassette anni, Joyce conobbe Ibsen attraverso le pagine di un libro, e ne subì profondamente l’influsso. Nel 1900, a diciotto anni, scrisse un saggio su “Quando noi morti ci destiamo”, dramma del famoso autore norvegese. I temi di Ibsen sono gli stessi che il giovane autore aveva in germe nella sua mente: “strappare alla vita il suo segreto”, “combattere il pigro vegetare che infiacchisce l’anima e la deturpa”, “rappresentare il dramma umano”; l’unica arma che l’artista possiede per far questo è la sua arte, e missione sacra è “illuminare le genti”.
Nello stesso anno del saggio “Ibsen’s new drama”, lesse all’Accademia storica e letteraria del suo istituto, una relazione intitolata “Dramma e vita” in cui Joyce cercava di definire se stesso e il proprio lavoro. Dopo essersi definitivamente districato dalla morsa tentacolare della Chiesa cattolica, che rischiava di soffocare il suo spirito d’artista, egli può avvicinarsi all’arte e tentare di chiarire la sua poetica. “Egli ripudiava il fine morale o patriottico dell’arte, così come le vaghe teorie estetizzanti dell’arte per l’arte. Sosteneva che l’arte non aveva alcuno scopo preciso…ma aveva una causa, anzi una necessità, l’imperativa intima necessità della fantasia di ricreare dalla vita l’ordinata sintesi della vita”. Per lui, “l’arte è l’umana elaborazione di materiale sensibile e intelligibile ad un fine estetico”; opera d’arte si ha quando la realtà, attraverso la mente e l’immaginazione dell’artista, raggiunge un fine estetico.Una rappresentazione artistica deve avere come unica protagonista in scena la verità pura e semplice. Questa fu la missione a cui Joyce consacrò la propria vita perché per lui “gli artisti sono gli autentici pastori spirituali della massa”.
Nel 1901 scrisse un’articolo “Il giorno del fecciume” in cui denunciava con indignazione il provincialismo dell’Irish Literary Theatre, perché questo andava a scapito di un aggiornamento culturale e di uno svecchiamento della cultura irlandese.
L’anno successivo scrisse un saggio sul poeta James Clarence Mangan in cui esponeva la sua preferenza per una poesia che seguisse i canoni della scuola classica.
Il temperamento classico, col suo stato d’animo improntato al materialismo, meglio rappresentava il concetto di poesia in cui Joyce credeva: “Poesia e filosofia, nelle loro più alte manifestazioni, hanno a che fare con leggi onnipresenti e costanti. Poesia è una ribellione contro l’artificio…la realtà si verifica nelle semplici intuizioni del poeta ed ogni età deve cercare la propria verifica nella sua poesia e nella sua filosofia, perché in queste l’anima dell’uomo attinge ad una condizione eterna”.
Negli ultimi anni all’università Joyce si distinse per l’anticonformismo. Le sue letture si fecero sempre più eclettiche: lesse D’Annunzio, Fogazzaro, Dante, Castiglione, Flaubert e opere di teosofia. Lo affascinò molto la figura di Paracelso, scienziato e mistico.
“Il 31 ottobre 1902 Jim si diplomò con lode in lingue moderne(inglese, francese, italiano)”.
Alla fine dell’autunno partì per Parigi per continuare alla Sorbona gli studi di medicina appena iniziati “a malapena vestito e con in tasca poco più del prezzo del biglietto”. Fece tappa a Londra, dove Yeats “il massimo poeta che l’Irlanda avesse mai avuto, con il solo Mangan come predecessore e il più grande tra i poeti inglesi contemporanei”, che aveva già conosciuto tempo prima, gli presentò molte persone influenti e lo incoraggiò nella sua avventura dicendogli che “egli non aveva mai incontrato nessuno…in cui fosse tanto intensa la gioia di vivere”. Conobbe Arthur Symons che lo aiutò in seguito, a pubblicare “Musica da camera”.
“Il soggiorno di mio fratello a Parigi, fu un vero fallimento”, declinata l’intenzione di studiare medicina (il diploma preso a Dublino non valeva, e le tasse erano anticipate) restò lì per approfondire gli studi su Aristotele e S.Tommaso; spedì due recensioni al “Daily Express”; in una criticava la poesia patriottica di un “poeta irlandese”, nell’altra faceva una critica ad un noto romanziere inglese.
L’inverno a Parigi fu durissimo per lui, “viveva in tanta miseria che a volte doveva saltare i pasti per quasi due giorni”, contemporaneamente alla sua collaborazione col “Daily Express”, Joyce scrisse le quattro poesie con cui chiuse quella raccolta di 36 liriche che fu chiamata “Musica da camera”; erano “parole per musica”; come Joyce stesso le definì. Per lo stile, egli si rifece alla tradizione in voga in Inghilterra nel periodo elisabettiano di versi cantati e musicati. Era infatti suo desiderio che le sue liriche venissero ascoltate più che lette, e ascoltate con accompagnamento di musica e canto, fu un desiderio, questo, che in seguito s’avverò.
Tipicamente decadente è l’atmosfera che si respira all’interno di questi versi, un sensualismo tormentato e languoroso, a cui il giovane James affida l’espressione dei suoi sentimenti più accorati e intensi che diventano, in poesia, voce di uno stato d’animo universale tipico della giovinezza.
Il soggiorno a Parigi, se deluse le iniziali intenzioni, rappresentò comunque per un altro verso “una stagione di penitenza e meditazione nel deserto…aveva bisogno di mettere alla prova la propria fede in se stesso, come poeta, come artista, come credente in quella grazia vivificante della fantasia di cui l’anima si nutre”. Ma il suo amore era forte e trionfò sulle avversità.
Joyce , nell’aprile del 1903, fu richiamato urgentemente in Irlanda, il telegramma che ricevette diceva : “Mamma morente vieni a casa. Papà”. Si fece prestare i soldi da un suo allievo per pagare il biglietto del viaggio, e provò “una fitta di rimorso per aver abbandonato la famiglia al suo destino, lui che era il figlio più grande e il depositario di tante speranze”.
La malattia della madre durò parecchi mesi, il 13 agosto 1903, a soli quarantaquattro anni, morì, dopo una vita di strenua lotta per mantenere unita la famiglia contro la forza disgregatrice dell’ubriachezza del marito, sostenuta solo dalla devozione incondizionata a quell’uomo e alla sua fede cattolica.
Il padre di Joyce era stato sempre una minaccia per la tranquillità familiare; da giovane era stato un uomo ricco di doti naturali “studente in medicina, rematore, tenore, filodrammatico, politicante di quelli che gridano, signorotto di campagna, benestante, bevitore, grand’amicone, barzellettiere, segretario di qualcuno, qualcosa in distilleria, esattore, bancarottiere, e attualmente elogiatore del proprio passato”(da Dedalus ), ma non riuscì mai a percorrere fino in fondo nessuna di queste strade a causa di un carattere fortemente insicuro, di una volontà paralizzata. L’unico rifugio fu per lui l’alcol, che gli faceva spesso perdere il controllo di sé; una volta tentò persino di .
strangolare la moglie. Ma l’amore per il padre, era una passione tanto forte dentro l’anima di James che nessuna immagine negativa la poteva scalfire.
Dopo la morte della madre, Joyce, seguendo l’esempio degli amici, cominciò a bere, riducendosi uno straccio e il suo lavoro subì una battuta d’arresto. Dalle ceneri del saggista e poeta risorse un uomo nuovo, che scelse la prosa come mezzo per esprimere la sua arte. Segno del suo congedo dalla lirica sono le “epifanie”, che raccolse tra il 1900 e il 1904. Nel “Guardiano di mio fratello”, Stanislaus dice : “Queste note furono al principio ironiche osservazioni su papere, piccoli sbagli, gesti, mediante i quali la gente tradiva proprio quelle cose che più cercava di tener nascoste, anche certi sogni che Jim considerava rivelatori. Le epifanie erano pezzetti brevi, caratterizzati da un estrema accuratezza percettiva e descrittiva . La rivelazione e l’importanza del subconscio avevano afferrato il suo interesse”. “Egli considerava la psicologia, che stava allora studiando, come base della filosofia, e le parole nelle mani dell’artista come un mezzo di somma importanza per la giusta comprensione dell’intima vita dell’anima e la rivelazione di quell’intima vita costituiva l’alto ufficio del poeta”.
Secondo Freud la conoscenza dell’inconscio, la visione completa della vita psichica dell’individuo, si ha attraverso il metodo psicanalitico: analisi delle libere associazioni, dei sogni e interpretazione degli “atti mancati”. Come Freud attraverso lo studio di lapsus verbali, sbadataggini, errori di memoria o azioni, incidentale rottura di oggetti, cerca di mettere in luce la verità dell’individuo, così Joyce chiama gli “atti mancati”, rielaborati attraverso la fantasia dell’artista in forma letteraria, “epifanie”: rivelazioni, manifestazioni che portano alla luce la verità della vita, che smascherano l’essenza delle cose.
Gli “atti mancati” di Freud e le “epifanie” di Joyce sono al servizio della stessa padrona: la verità.

Analisi psicologica di due personaggi joyciani tratti da Dubliners (Eveline e mr.Duffy)

EVELINE

In questo racconto Joyce ci delinea il profilo di un personaggio femminile, una ragazza diciannovenne in conflitto tra il ruolo di sorella maggiore responsabile della famiglia perché la madre è morta, e il ruolo di donna che ha promesso all’uomo che la vuole sposare di fuggire con lui.
La scena si apre con Eveline che guarda dalla finestra ripensa alla sua infanzia, alla morte della mamma, e a tutti quelli che sono andati via. Malinconicamente i suoi occhi si posano sugli oggetti a lei cari, mentre i pensieri le affollano vorticosi la mente. Già sente nelle orecchie il ronzio dei pettegolezzi che si faranno sul suo conto ai Magazzini dove lavora; come in un flash-back rivede le sue giornate: il lavoro, la lotta quotidiana per far quadrare il bilancio, la cura della casa e dei suoi fratellini , le urla e le minacce del padre. E’ stanca del peso che le sue giovani spalle devono sopportare, vuole fuggire, andare lontano, sposarsi per cominciare un’altra vita.
Ripensa al giorno in cui ha conosciuto Frank, al suo corteggiamento e ai suoi racconti di paesi lontani, di mondi esotici; è un bravo marinaio dal cuore generoso, sarebbe diventata sua moglie e tutti l’avrebbero rispettata.
Di nuovo il pensiero ritorna a suo padre, era invecchiato e a volte sapeva anche essere gentile.
Il tempo passa e d’un tratto la musica di un organetto le ricorda la promessa fatta al capezzale della mamma morente: avrebbe badato il più a lungo possibile alla famiglia. Il terrore di rimanere prigioniera in una vita fatta solo di sacrifici s’impossessò di lei; Frank l’avrebbe salvata, doveva fuggire.
Al molo, davanti alla nave, mentre Frank la chiama, prega Dio di guidarla, un rintocco di una campana e lei si paralizza; con tutte le forze Eveline si aggrappa ad un parapetto di ferro.
Non partirà più.

………..

Analisi psicologica

In questo racconto possiamo mettere in evidenza i meccanismi della creazione poetica di Joyce:episodi di vita reale fusi nel crogiolo della sua fantasia.
Dal “Guardiano di mio fratello”: “Mia madre per parecchi mesi si trascinò nella malattia, e cominciava anche un po’a vaneggiare”. Quando morì, “la sorella più grande, che aveva diciannove anni, ereditava un peso che avrebbe sfibrato qualsiasi donna…la principale difficoltà per mia sorella consisteva ne cavar denaro da mio padre”: Queste sono le tracce della realtà dalle quali Joyce ha preso spunto per “Eveline”.
Inoltre nel racconto vediamo come l’autore fosse un profondo conoscitore dell’animo umano; gli eventi sono ridotti al minimo, ed hanno una funzione più che altro illustrativa della personalità di Eveline e della “situazione” in cui il personaggio si trova. La narrazione è quindi orientata in modo da far emergere, implicitamente, i tratti psicologici della protagonista e i motivi per cui ella compie alla fine una certa scelta di vita. Non è mai facile decidere tra due tendenze inconciliabili ed escludentisi a vicenda , ma non si può nemmeno rimaner fermi, l’impasse va superata.
E’ proprio di fronte ad una scelta di vita che Joyce pone la protagonista del racconto, ci fa vivere insieme a lei il momento lacerante del conflitto, la lotta tra le due opposte motivazioni: rimanere nella sua casa o lasciarla.
Quando il conflitto tra due bisogni suscita un’ansia troppo elevata, questa interferisce nei processi razionali della decisione e della scelta, il comportamento dell’individuo diviene disorganizzato e la volontà non riesce a tradurre le intenzioni in azioni. L’uomo fornisce allora, delle risposte inadeguate che non permettono di superare l’ostacolo e di raggiungere l’obbiettivo prefissato. Queste risposte vengono dette “meccanismi di difesa” e sono processi operanti al di fuori e al di là della coscienza, sono risposte automatiche provocate da spinte inconsce sulle quali l’uomo non esercita alcun controllo volontario.
Il meccanismo che Eveline inconsapevolmente adotta per fuggire dallo spiacevole stato emotivo in cui si trova, è la “razionalizzazione”, questo meccanismo riuscirà non solo a nascondere i veri motivi che la porteranno al fallimento del suo sogno di fuga, ma costruirà anche, per lei, delle argomentazioni razionalmente valide, modellando una realtà nuova che renda meno dolorosa la frustrazione del bisogno sacrificato.
Eveline mette in atto il processo di razionalizzazione quando dice: “Aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa, ma era una cosa sensata? Si sforzava di valutare ogni aspetto del problema”. Era ragionevole la sua decisione? Ecco che Eveline elabora il motivo che determina la frustrazione in modo da renderlo accettabile… “Un lavoro duro, sì, una vitaccia, ma adesso che stava per lasciarla già non la trovava più così insopportabile”.
Una nuova realtà si forma nella mente di Eveline, il padre non le fa più tanta paura, lo ricorda ora in episodi felici:quando le era stato vicino e l’aveva accudita un giorno che era a letto malata, quando ad una gita aveva fatto divertire i bambini con i suoi scherzi.
E poi è un uomo che sta invecchiando, lei gli sarebbe mancata.
Pian piano sorgono e si amplificano in Eveline i sensi di colpa, il rimorso di lasciare la sua famiglia diventa un peso che lentamente la schiaccia. “E mentre stava lì a meditare, la penosa visione della vita della madre operava nel più profondo del suo essere una specie di sortilegio”.
Ecco il motivo che inchioderà Eveline alla sua casa, lei non può rompere il giuramento fatto alla madre in punto di morte. In questo momento sa già che non partirà più.
Il meccanismo della razionalizzazione, oltre ad elaborare la situazione frustrante facendola apparire sotto una luce migliore, trasforma l’obbiettivo della tendenza frustrata, che viene al contrario messo sotto una luce meno allettante. Nei casi in cui l’insuccesso (la mancata fuga) metta in gioco l’autostima, esso viene attribuito anche ad un ambiente ostile (gli scuri bagagli dei soldati, la massa immobile e nera della nave, il suo luttuoso ululo nella nebbia), ed avversità insormontabili(tutti i mari del mondo le s’infrangevano sul cuore).
Frank, l’uomo che “l’avrebbe stretta tra le braccia e l’avrebbe salvata”, appare ai suoi occhi trasformato:“sentì che egli l’afferrava per mano, la trascinava dentro i mari, la voleva annegare”.
Il meccanismo della razionalizzazione ha così dipinto per Eveline e per noi, un quadro in cui la paura dell’ignoto, l’insicurezza, il bisogno di rimanere nella casa natia, l’incapacità di agire, le vere cause dell’insuccesso, sono state abilmente mascherate; l’immagine di sé è salva.

UN INCRESCIOSO INCIDENTE

Il protagonista di questo racconto è un uomo, mr.Duffy, uno scapolo che vive in una “vecchia casa tetra”. E’ un uomo solitario che spende i suoi giorni grigiamente, fa il cassiere in una banca, e la sua vita è un monotono tran tran :una “storia senza avventure”.
Una sera ad un concerto incontra una signora la quale lo invita a scambiare due parole, in seguito si ritrovano; la terza volta, lui, facendosi coraggio, la invita ad un appuntamento.
Cominciarono a frequentarsi. Nei loro incontri i pensieri, le idee s’intrecciavano, si creò tra i due un’affinità intellettuale, una calda intimità che donava piacere alle loro menti.
Una sera però la donna “gli prese con passione una mano e se la premette sulla guancia. mr.Duffy rimase assai stupito” e decise di troncare quella loro relazione.
Il tempo tornò a scorrere lungo i piatti binari della monotonia.
Una sera di quattro anni dopo, mentre leggeva distrattamente un giornale, un trafiletto calamitò la sua attenzione :“Morte di una signora a Sidney Parade”; era lei, la donna che lui aveva frequentato, con la quale aveva diviso la sua spiritualità.
Ubriaca era finita sotto un treno che l’aveva uccisa; che morte “volgare e avvilente”.
La notizia lo gettò nello sconforto, contrapposti sentimenti lottavano nella sua coscienza: un attimo approvava la decisione di aver rotto quel legame, l’attimo dopo si sentiva in colpa per aver condannato quella donna a morire, sentiva anche quanto la sua vita fosse stata vuota, imprecò alla rettitudine della propria esistenza.
All’improvviso nella sua mente quelle voci si spengono.
Il silenzio tornò a regnare dentro e fuori di lui.

…………

Analisi psicologica

Anche in questo racconto si trovano tracce prese da avvenimenti realmente accaduti, ce lo riferisce ancora una volta Stanislaus nel suo “Guardiano di mio fratello”: “Verso quest’epoca andai da solo alla Rotonda ad un concerto…la sala del concerto era affollatissima e io uno dei più entusiasti del pubblico: dopo un po’ mi accorsi che una signora seduta accanto a me mi guardava e riguardava più volte. Era una donna piacente, dai capelli scuri, tra i trenta e i quaranta. Notavo la sua carnagione chiara e le grandi pupille e il purissimo bianco dei suoi occhi bruni. In una pausa mi rivolse la parola e continuammo così a chiacchierare, nelle altre brevi pause e nell’intervallo…alla fine ci salutammo: lei mi strinse la mano, con un placido sorriso. In seguito l’incontrai per caso, almeno una volta, a quanto mi ricordo. Fu lei a fermarmi per strada: io non avevo ancora diciott’anni e non avrei mai osato avvicinarla. Mi fece qualche convenzionale domanda sui miei studi, e i suoi modi erano simpatici e amichevoli: ma non l’incontrai più da allora. Da questo poco promettente spunto, che trovò nel mio diario, mio fratello costruì il racconto “Un’increscioso incidente”, scritto molto tempo dopo a Trieste…nell’immaginario ritratto al quale servii da modello, mio fratello mi ha battezzato col nome di Duffy…Jim si servì di molte caratteristiche mie nella creazione del personaggio di mr. Duffy: l’intolleranza per gli ubriachi, l’avversione al socialismo e l’abitudine di annotar brevi aforismi su uno scartafaccio di fogli volanti tenuti insieme, il titolo che Jim proponeva per questo distillato di saggezza in pillole era Grani di Bile. Nel racconto ce ne sono due -un legame è sempre un legame di dolore- e -l’amore fra uomo e uomo è impossibile per il divieto di un rapporto sessuale e l’amicizia fra uomo e donna è impossibile per la necessità di questo rapporto-. Per qualche vaga ragione sia l’uno sia l’altro aforisma erano entrati a far parte della raccolta dopo quel fortuito incontro al concerto. A mr. Duffy Jim aveva anche prestato alcuni tratti di se stesso, come l’interesse per Nietzsche e la traduzione di Michael Kramer , per elevarne il livello intellettuale…Egli era intervenuto a riunioni di gruppi socialisti organizzati in certi retrobottega, nel modo e nelle circostanze che si attribuivano a mr. Duffy…devo precisare che il deluso distacco di mr.Duffy dal socialismo non rifletteva le idee di mio fratello, ma le mie”.
“Un increscioso incidente” è dunque il frutto dell’elaborazione fantastica della realtà, è dimostrazione di cosa l’autore intendesse per opera d’arte. Attraverso le pagine di questo racconto appare chiaro nuovamente, come Joyce possedesse un’acutezza psicologica che lo rendeva capace di dipingere per noi lettori, in un quadro ricco di mille sfaccettature, la personalità di un uomo.
Dal racconto. “ per temperamento, un dottore del Medioevo avrebbe definito (mr.Duffy)un saturnino”.
Nella medicina antica si sosteneva l’esistenza di un rapporto diretto tra maggior quantità di un “umore”, struttura del corpo e personalità. Il carattere saturnino (atrabiliare o malinconico)ha delle precise connotazioni sia fisiche che psichiche: Il nostro personaggio ne è un modello perfetto.
Colorito olivastro “Il suo viso aveva il color bruno delle strade dublinesi”, cranio molto sviluppato “sulla testa lunga e piuttosto grossa spuntavano aridi capelli neri”, magro “anche gli zigomi ossuti gli aggiungevano una nota di durezza”; la vita del malinconico scorre nel cerchio delle sue abitudini “aveva una strana abitudine autobiografica che lo induceva a comporsi di quando in quando nella mente brevi frasi su se stesso” e delle sue manie “rifuggiva da ogni indizio esteriore di disordine fisico e mentale” sospettoso “viveva a una certa distanza dal proprio corpo considerandone le azioni con dubbiose occhiate di sbieco”, dotato di corrotta immaginazione “si permetteva di pensare che in date circostanze avrebbe potuto sottrarre soldi alla banca”, decisamente asociale, rifugge la compagnia, un misantropo “non aveva né compagni, né amici, né chiesa, né credo. Consumava la sua esistenza spirituale senza comunione alcuna col prossimo”:
Abbiamo così conosciuto mr.Duffy, i suoi lineamenti e il suo temperamento.
Un giorno quest’uomo solitario incontra una donna, due destini si incrociano, nasce un legame. Comincia la loro avventura, i loro incontri si fanno via via più intimi, ma di una intimità solo spirituale; una sera la donna gli chiede qualcosa di più, un contatto fisico, lui si ritrae, ha paura, fugge: il legame si spezza.
Un altro tassello della personalità di mr. Duffy emerge, il malinconico soffre di nevrosi: il nevrotico è un individuo che conduce un doloroso stile di vita, è un uomo che non riesce ad armonizzare la propria personalità. Ci sono persone che si creano un’immagine di sé troppo alta, che pensano di poter controllare non solo la propria condotta, ma anche i sentimenti, gli impulsi istintivi, e considerando( per una morale troppo repressiva e colpevolizzante) questi istinti come qualcosa di basso e degradante, mettono in atto meccanismi di difesa deputati a soffocarli.
Gli impulsi maggiormente soggetti a repressione sono quelli sessuali, o più genericamente amorosi, “rimuovere” o “reprimere” il desiderio non vuol dire estinguerlo, ma semplicemente negare di averlo. Reazione di difesa atta a tenere fuori dalla coscienza il bisogno represso sono anche tutti quei rituali ripetitivi , metodico-pedanteschi seguendo i quali la persona prova un temporaneo sollievo.
Mr.Duffy si sente sicuro a condizione di immettersi in rigidi binari, a condizione di attenersi con scrupolo severissimo ad una regola ferrea. Il gesto della donna(l’increscioso incidente), ha riportato alla luce l’impulso sessuale, ha rotto la barriera dell’inibizione e lo ha gettato in un’incontenibile angoscia; cosa poteva fare se non fuggire? Mr. Duffy aveva rifiutato la sua sessualità, ritenendola moralmente inaccettabile, l’aveva imprigionata.
E’ un uomo incapace ormai di abbandonarsi “Non ci possiamo abbandonare diceva la voce”, incapace di uscire da se stesso “apparteniamo sempre a noi stessi”, la sua unione con quella donna doveva rompersi perché :”L’amore tra uomo e uomo è impossibile per il divieto di un rapporto sessuale, e l’amicizia fra uomo e donna è impossibile per la necessità di questo rapporto”:
Quando la compagna dell’anima sua muore, è il secondo “increscioso incidente”, mr.Duffy cade nuovamente in crisi, in quei quattro anni l’aveva rimossa dalla sua coscienza ed ora ella riappare dalle pagine del giornale per riaprire quell’antica ferita che sembrava essersi rimarginata per sempre. Ancora angoscia, sensi di colpa, sentimenti di incapacità ad afferrare la vita, la felicità, incapacità a godere del “banchetto della vita” e ancora una volta a salvarlo da quel dolore la rimozione “cominciava a mettere in dubbio la realtà di quel che la memoria gli raccontava”.
Mr.Duffy è di nuovo solo.

di Margherita De Napoli

James Joyce: i suoi primi anni sino a “Gente di Dublino” (due racconti: Eveline, Un increscioso incidente)ultima modifica: 2017-01-13T16:55:20+01:00da zerlinaweb-123
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