Povertà di parola

Risponde Umberto Galimberti

Anni fa scrissi una lettera che inviai ad Umberto Galimberti sull’uso distorto del “piuttosto che”. Lui mi dette una interessante e profonda risposta pubblicata su ‘D La Repubblica delle donne’.

Tuttora il “piuttosto che” è vivo, vegeto e saltella ancora agile di bocca in bocca. Ho pensato di condividere con voi la mia breve riflessione di allora e la risposta del filosofo. (Margherita De Napoli)

[ Gentile professore, mi ha incuriosito un modo di dire che ormai è di moda. Messi in disparte i vecchi “cioè” e “a monte”, gettato alle ortiche il famigerato “attimino”, noto una crescente inflazione del “piuttosto che”. Per la “generazione degli ‘abbastanza’ ”(rapporto Eurispes ’96) il “piuttosto che” mi pare un inscindibile, naturale prolungamento, un’appendice inquietante perché equiparante. Mi colpisce che se ne sia snaturato il significato: nato per istituire una differenza, celebra oggi l’indifferenza, masticato e rimasticato si è allontanato dalla sua originaria intenzione. Scelta di chi in fondo non sceglie più per indolenza che per mancanza di coraggio:“Carabi piuttosto che Maldive”…“gelato al pistacchio piuttosto che alla vaniglia”…“Versace piuttosto che Armani”. Cancellate le priorità, le preferenze. E’ il livellamento del “questo o quello per me pari sono”, è l’azzeramento delle “tendenze desideranti”, della conflittualità legata all’aut aut. Spettatori più che attori della propria esistenza. Come lei dice su ‘La Repubblica’ in un articolo del’97 intitolato “Riempite il vuoto dei vostri figli”: “E’ il disinteresse per tutto…la non partecipazione che porta all’atteggiamento opaco dell’abbastanza”.
Non crede che questi atteggiamenti opachi appartengano a chi prematuramente arreso, pensa non si possa osare(o ne valga la pena)avere una preferenza, un’inclinazione(figuriamoci una passione!)? Come se esponendosi, uscendo troppo allo scoperto si rischiasse una schioppettata. Meglio non ascoltare, non assecondare, non manifestare le proprie voglie, si rischia di vivere. ]

[ Risposta di Umberto Galimberti: -Se nel linguaggio comune l’espressione “piuttosto che” non è più indicativa di una differenza, vuol dire che siamo diventati completamente indifferenti alle alternative e abbiamo perso il gusto di avere opinioni, tendenze, inclinazioni che siano davvero “nostre” e come tali diverse da quelle degli altri. In una parola, anche se ogni giorno ci sciacquiamo la bocca con la parola libertà, siamo in un regime di perfetto conformismo, dove le opinioni, i gusti e persino le passioni che riteniamo “nostre”, in realtà ci vengono fornite, proprio come le altre merci, già confezionate, e quindi sotto sotto ci sono indifferenti, e il nostro linguaggio lo registra. Se la possibilità di formarsi una “propria” opinione è limitata, pensi quanto decrepita sarà la possibilità di esprimere una “propria” opinione, ma siccome tutti in Occidente sono convinti di godere di un’illimitata libertà di opinioni (di cui siamo giornalmente riforniti dai media come al mercato siamo riforniti di merci) trattiamo le diverse opinioni l’una “piuttosto che” l’altra come identiche. E questo significa che non solo non ci poniamo più neppure la domanda: “Ma questa è un’opinione mia oppure no?”, ma neanche capiamo il senso di questa domanda se qualcuno per caso dovesse porcela. Siamo infatti convinti che le opinioni, di cui siamo rigorosamente riforniti, sono le “nostre”, così come siamo convinti che non si può governare senza il consenso, senza cioè aver sentito la gente che ha una sua opinione, che è poi quella di cui è stata precedentemente rifornita. Con l’aiuto dei media che sono a disposizione di chi li possiede, si vendono alla gente le decisioni che si sono prese, proprio come qualunque ditta vende le sue merci ai suoi clienti, i quali sono convinti di desiderare proprio ciò di cui sono riforniti. A questo punto viene da pensare che l’uso improprio del “piuttosto che” non è tanto sintomo di indifferenza, quanto la spia semantica di uno scenario dove per “dettar legge” si deve sommessamente dare a intendere che si “viene incontro” al cliente; anzi, che non si ha assolutamente altro desiderio che non sia quello del cliente, il quale naturalmente già da un pezzo è stato privato del “diritto al desiderio”.
E per giunta non lo sa. Il cliente di oggi, che sia cliente di merci o di opinioni, la cosa non cambia, è abituato a essere fornito di merci e di opinioni già fatte. Il “fai da te” è considerato tutt’al più un hobby, un’occupazione del tempo libero. È dunque comprensibile che ci aspettiamo di ricevere le opinioni già “belle e pronte”, come belle e pronte riceviamo tutte le merci. E siccome ne riceviamo tante, riteniamo anche di essere più liberi di un tempo in cui non c’era tutta questa offerta. Ma l’inconscio qualche sospetto ce l’ha, e allora ci mette in bocca un’espressione alternativa, un “piuttosto che” per esprimere un’equivalenza, perché tutto, dalle opinioni ai desideri, dalle tendenze alle passioni, diventa equivalente quando nessuna opinione, nessun desiderio, nessuna tendenza e nessuna passione è davvero nostra.

Povertà di parolaultima modifica: 2017-03-01T16:41:05+01:00da zerlinaweb-123
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